La testimonianza agghiacciante di un ex hooligan.

Tony Evans, oggi responsabile delle pagine sportive del Times e scrittore, ripercorre i momenti precedenti e immediatamente successivi a quella notte del 29 maggio 1985. L’intervista fiume rilasciata alla Stampa il 28 maggio 2010 è un susseguirsi di aneddoti e impressioni agghiaccianti. C’erano, secondo le assurde logiche hooligans e ultras, ruggini mai sopite vecchie di un anno con il tifo italiano, quando a Roma i tifosi del Liverpool vennero accoltellati dopo la finale vinta dal Liverpool all’Olimpico contro i giallorossi. Ma Evans non si nasconde dietro inammissibili ragioni di vendetta e inizia il suo racconto:

“Un muro è crollato, tutto qui”. Io queste parole le ho sentite e le ho ripetute tantissime volte. Ma sono menzogne. C’è un momento di quel giorno a Bruxelles che più di qualsiasi altro continua a tormentarmi. Il nostro treno era da poco arrivato alla stazione di Jette e una lunga colonna di tifosi del Liverpool si era incamminata giù dalla collina verso il centro. Mi fermai a guardarli, bandiere a scacchi rossi e bianchi al vento… Dissi tra me e me: «Oggi possiamo fare tutto ciò che ci pare. Nessuno può fermarci»

Evans prosegue poi raccontando dell’odio che gli inglesi nutrivano verso gli italiani:

“Era un giorno caldo e soleggiato, ma nell’umore generale si captava un sottofondo oscuro. Quelle bandiere a scacchi le avevamo preparate per la finale dell’anno precedente, contro la Roma allo Stadio Olimpico. E nonostante la conquista della quarta Coppa dei Campioni nessuno, tra quelli di noi che erano stati a Roma, ricorda con affetto quel giorno. Prima della gara, gruppi di giovani in motorino avevano dato la caccia ai nostri tifosi, coltelli in mano. E, dopo la partita, fummo vittima della rabbia di Roma, tra sangue, angherie e umiliazioni. Ci eravamo detti che la storia non si sarebbe ripetuta. La nostra rabbia non era diretta solo agli italiani. La stampa britannica aveva praticamente ignorato gli eventi dell’Olimpico l’anno prima… Liverpool, in quegli anni, era una città marginalizzata e odiata dal resto del Paese, un anacronismo che c’entrava poco con l’Inghilterra”.

Lo scrittore parla di come fosse prevedibile che qualcosa andasse storto quel giorno:

“Noi del Liverpool eravamo in tanti e ci sentivamo sicuri. Bevevamo e cantavamo a torso nudo sotto il sole. Era quasi idilliaco. Ma poi, complice l’effetto dell’alcol, tutto cambiò. I bar cominciarono a chiudere, forse impauriti da ciò che avremmo potuto fare…

Partimmo a piedi per lo stadio. Ovunque c’erano tafferugli. In circostanze normali, tutto ciò non sarebbe avvenuto. Ma quel giorno era diverso… Eravamo ubriachi ma anche in quello stato capimmo che lo stadio era fatiscente. Alle entrate non vi erano praticamente controlli. Tutt’ora, 25 anni dopo, ho ancora intatto il biglietto di quella serata. Eravamo nel settore Y, accanto al maledetto settore Z, e si capì subito che eravamo in troppi. La folla ci spinse avanti, verso il campo, crollò una prima barriera. La polizia reagì con i manganelli. Vidi un ragazzo – uno dei nostri – rimasto imbrigliato nel filo spinato mentre cercava di scavalcare un muro. E vidi un poliziotto che lo manganellava. Mi avvicinai e gli diedi un pugno in faccia. Scappò via. A quel punto, quasi tutta la polizia si era dileguata”.

Infine, Evans racconta i terribili istanti della strage:

“E così noi ci concentrammo sul bar, dove un povero cristo vendeva patatine e panini. In pochi secondi avevamo saccheggiato tutto. Tra settore Y e settore Z vi era un fitto lancio d’oggetti. In realtà, per gli standard di quegli anni, non era nulla di inusuale. Guardammo con invidia gli spazi nel settore Z che era mezzo vuoto, mentre il nostro settore Y, complici i molti tifosi senza biglietto, era strapieno. Mi assentai per qualche minuto per fare la pipì. Al ritorno vidi che la rete che separava i due settori era caduta e che molti dei nostri erano passati al settore adiacente… Più sotto e nell’angolo più lontano stavano morendo 39 persone”.

E quanto avvenne nel dopo-partita:

“Della partita non ricordo nulla. Del dopo-partita ricordo la paura di essere accoltellato dagli juventini. E ricordo il poliziotto belga che, preso dall’ira, lanciò un lacrimogeno dentro un autobus di tifosi del Liverpool. Arrivammo a Ostend per prendere il traghetto, tristi e depressi, ma ancora ignari. Solo dopo, sulla Manica, cominciò a spargersi la voce. A casa cominciammo a trovare antidoti per la nostra vergogna, raccontandoci le solite bugie… Una lunga catena di eventi ha portato all’Heysel. Gli accoltellamenti e i pestaggi subiti a Roma, l’alcol, la nostra aggressività, l’inefficienza della polizia e uno stadio fatiscente. Senza uno di questi anelli nella catena maledetta forse quel giorno sarebbe passato senza incidenti. Oggi i tifosi dell’Everton ci dedicano uno sfottò: «Trentanove italiani non possono avere torto». Un modo per dire che l’Heysel è colpa di noi del Liverpool. Hanno ragione. Il torto era nostro. Il torto era mio”.